Il 10 dicembre 2025, tre giorni fa, l’Australia ha fatto partire un provvedimento mai visto prima: un divieto — definito dalle autorità come un “ritardo nell’apertura di account" — che impone a una lista di grandi piattaforme di impedire agli under 16 di creare o mantenere un profilo, con sanzioni fino a 49,5 milioni di dollari australiani per le aziende che non adottano “misure ragionevoli”, mentre i singoli adolescenti o genitori non sono perseguibili.
“Un giorno di cui non sono mai stato più orgoglioso da primo ministro”, ha detto Anthony Albanese nel contesto del lancio della misura. La legge ha avuto un sostegno pubblico ampio e bipartisan, alimentato anche da una forte campagna mediatica — su Morning Tech abbiamo condiviso il fatto dal primo reel che Albanese ha pubblicato sui social media; da quel giorno, l’esperimento australiano è diventato rapidamente un caso globale, sotto attenta osservazione da altri governi che stanno valutando approcci simili.
Uno dei nodi principali, fin dal giorno zero, è stato l’enforcement: il ban non chiede ai ragazzi di sparire dalla rete, ma sposta il peso della conformità sulle piattaforme. L’autorità incaricata di vigilare, l’eSafety Commissioner Julie Inman Grant, ha iniziato subito a chiedere alle aziende dati e dettagli operativi: quante chiusure di account, quali sistemi di verifica vengono usati, e con quale efficacia. Inman Grant ha anche sostenuto che le piattaforme possiedono già tecnologia e dati sufficienti per applicare l’età minima “con precisione”, e che l’Australia potrà dare una prima lettura dei risultati a stretto giro.